Riaprono i “cantieri” delle pensioni per individuare l’uscita flessibile dal mondo del lavoro in vista della scadenza di Quota 100, prevista per il 31 dicembre 2021.
La misura, introdotta nel 2019, ha consentito in questi tre anni di mettersi a riposo con 38 anni di contributi e 62 di età anagrafica, senza avere formalmente delle penalità sull’importo della pensione.
Chi ha aderito ha potuto beneficiare di uno “sconto” rispetto ai requisiti standard per l’accesso alla pensione, che prevedono 67 anni di età per quella di vecchiaia oppure 42 anni e 10 mesi di contributi (41 anni e 10 mesi per le donne) per il pensionamento anticipato.
Ma perché è stata introdotta Quota 100? E perché ora si è deciso di archiviarla?
Riforma delle pensioni: da dove nasce Quota 100
Da quando, nel 1995, l’allora Governo Dini diede l’input per una profonda revisione del sistema previdenziale, di fatto si sono succedute numerose riforme delle pensioni, più o meno strutturali.
Il filo conduttore è stata la necessità di ridurre l’incidenza della spesa previdenziale sul bilancio dello Stato, con l’obiettivo di arrivare ad un sistema in cui le uscite (pensioni) siano coperte dalle entrate (contributi lavorativi), in modo da dover ricorrere sempre di meno alla fiscalità generale per finanziare la spesa pensionistica.
Il punto di svolta è stata la riforma Fornero delle pensioni, che di fatto ha concluso il passaggio (previsto già dalla riforma Dini del 1995) dal metodo retributivo per il calcolo dell’importo del vitalizio, più dispendioso per la fiscalità generale ma più favorevole al pensionato, a quello contributivo, che prevede che la pensione sia pari ai contributi versati dal lavoratore.
La riforma, inoltre, ha innalzato i requisiti dell’età minima per la pensione per uomini e donne e l’ha ancorata all’aspettativa di vita, di fatto imponendo una periodica revisione al rialzo.
Per mitigare gli effetti della legge Fornero sull’età pensionabile, sono state periodicamente introdotte o riproposte forme di flessibilità di uscita dal mondo del lavoro, generalmente rivolte a specifiche categorie (lavori usuranti, donne, lavoratori precoci), la maggior parte delle quali è ancora in vigore. A queste misure di mitigazione, nel 2019, si è aggiunta Quota 100, di cui, secondo gli ultimi dati aggiornati dell’Inps1, hanno beneficiato 180.000 uomini e 73.000 donne nel biennio 2019-2020.
Rispetto ad altre forme di flessibilità, peculiarità di Quota 100 è stata la gratuità dell’adesione. Normalmente, infatti, quando si offre la possibilità di andare in pensione prima rispetto ai tempi previsti, il beneficiario viene penalizzato, con una riduzione dell’importo della pensione per controbilanciare l’onere maggiore sul bilancio pubblico.
Quota 100 non ha previsto questo meccanismo, anche se, a conti fatti, restare al lavoro fino alla fine comporta sempre un vantaggio in termini di importo della pensione, perché più sono i contributi accumulati, più la pensione corrispondente è elevata.
Perché il Governo ha deciso di non rinnovare Quota 100?
La misura Quota 100 era stata introdotta nel 2019 con un orizzonte di 3 anni, allo scadere dei quali il Governo avrebbe potuto scegliere se prorogarla o farla scadere.
Al di là delle sensibilità politiche degli esecutivi che si sono succeduti negli ultimi anni, si è scelto di chiudere la stagione di Quota 100 per almeno due motivi.
La prima ragione è la questione dei costi. Per finanziare la misura, erano stati stanziati 19 miliardi, necessari a coprire la spesa per i pensionamenti anticipati. In realtà, le adesioni non sono state così massicce come si era ipotizzato, tanto che il monitoraggio Inps dice che operativamente ne sono stati impegnati non più di 10 miliardi, per effetto di un’adesione che è stata più bassa della platea potenziale di riferimento. Si stima, quindi, che bloccando la misura a fine 2021 si possano risparmiare 7 miliardi di euro.
C’è poi una ragione più ampia, che travalica il tema della previdenza e che riguarda quello più esteso del Recovery Fund. Nel paragrafo A19 delle conclusioni del Consiglio Europeo2 sulla valutazione dei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza, è specificato: “I piani per la ripresa e la resilienza sono valutati dalla Commissione entro due mesi dalla presentazione. Nella valutazione il punteggio più alto deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese, nonché del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resilienza sociale ed economica dello Stato membro”.
Tra le raccomandazioni che l’Europa ha dato all’Italia negli ultimi anni c’è proprio quello di non fare passi indietro rispetto alla riforma previdenziale del 2011, che era stata necessaria per assicurare stabilità ai conti pubblici per i decenni a venire. Di fatto, ogni forma di flessibilità introdotta, a maggior ragione quelle che non prevedono penalizzazioni per i beneficiari, mette a rischio la stabilità dei conti. Questo aspetto ha certamente pesato nel confermare la decisione di non prorogare Quota 100 oltre la sua scadenza naturale.
Quali alternative dopo Quota 100?
Con la fine di questa misura, di fatto dall’1 gennaio 2022 i requisiti per la pensione torneranno ad essere quelli ordinari, creando uno scalone rispetto a chi, fino al giorno prima, ha potuto beneficiare dell’uscita anticipata a 62 anni contro 38 di contributi.
Senza un’armonizzazione si potrebbero creare situazioni limite. Prendiamo il caso di due lavoratori che abbiano operato nella stessa azienda per 38 anni, ma di cui uno sia nato a dicembre 1959 e l’altro a gennaio 1960. Il primo, se vuole, può andare in pensione a 62 anni, il secondo dovrà aspettare almeno altri 4 anni e 10 mesi per il pensionamento anticipato o i 67 anni e 9 mesi di età anagrafica.
Per questo, proprio in queste settimane, si è riaperto il confronto sulla riforma pensionistica, tra Governo e sindacati, con un tavolo tecnico che ha l’obiettivo di individuare una forma di flessibilità sostenibile. Tra le opzioni in campo, di cui si sta discutendo, c’è Quota 41, ovvero il pensionamento per chi abbia 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica, che però sarebbe difficilmente sostenibile per i conti pubblici: si parte da un costo di oltre 4,3 miliardi il primo anno fino ad arrivare a 9,2 a fine decennio, corrispondenti allo 0,4% del prodotto interno lordo3. Un’altra ipotesi potrebbe essere il pensionamento a 62 anni a condizione che il vitalizio sia calcolato con metodo contributivo (importo legato solo ai contributi effettivamente versati) e che solo al raggiungimento dei 67 anni sia aggiunta la quota retributiva (più generosa con il pensionato).
Resta il fatto che con il PNRR l’Italia ha assunto l’impegno di prevedere forme di flessibilità in uscita dal mondo del lavoro solo i lavori gravosi, per i quali effettivamente la permanenza in attività fino a tarda età potrebbe compromettere la stessa salute del lavoratore4. La sensazione è che con Quota 100 sia un po’ finita la stagione della flessibilità e che, progressivamente, si andrà sempre più verso il mantenimento dei requisiti standard indicati dalla legge sulle pensioni del 2011, con un incremento sempre maggiore dell’età pensionabile.
1. Silvia Inghirami, “Quanto costerebbe allo Stato il pensionamento anticipato con 41 anni di contributi”, AGI, 12 luglio 2021
2. “Conclusioni – 17, 18, 19, 20 e 21 luglio 2020”, Consiglio Europeo, 21 luglio 2020
3. Stefano Rizzuti, “Pensioni, per superamento quota 100 l’ipotesi quota 41: come funziona e quanto costa secondo l’Inps”, Fanpage, 12 luglio 2021
4. Tommaso Coluzzi, “Draghi cancella Quota 100, la misura bandiera della Lega sulle pensioni”, Fanpage, 23 aprile 2021