Per dare qualche numero che aiuti a comprendere la dimensione dell’incremento dei risparmi su conti correnti o depositi bancari nel post-Covid, secondo la Banca d’Italia1 nel 2020 i depositi sono cresciuti di 85 miliardi, più di due volte la media dei cinque anni precedenti. Il trend prosegue anche nel 2021: l’Associazione Bancaria Italiana ha calcolato che a giugno 2021 i depositi (in conto corrente, certificati di deposito, pronti contro termine) sono aumentati di 135 miliardi rispetto a giugno 2020, con una variazione del +8,2% su base annuale2. Nel complesso, le riserve degli italiani sfiorano i 2.000 miliardi di euro, una cifra superiore al PIL3.
Dal 2008, data simbolo della grande crisi, questo trend è stato sempre in costante crescita, nonostante il clima sui mercati finanziari sia migliorato dopo il primo momento di crisi, se si esclude la breve parentesi nel 2020.
La scelta di lasciare i risparmi in strumenti che producono un rendimento pari allo zero è avvertita generalmente come più “sicura” rispetto ad una gestione che prevede una qualche forma di investimento, in cui il rendimento è connaturato all’esistenza di un rischio, nonostante questo possa essere comunque mitigato con un’adeguata diversificazione.
Eppure, le cose sono in realtà più complicate di come appaiono, perché anche immobilizzare i propri risparmi sul conto corrente presenta spese esplicite e costi nascosti, che dovrebbero essere valutati con attenzione prima di scegliere come gestire il proprio capitale.
Costi fissi, inflazione, mancata opportunità: gli oneri della liquidità
La scelta di accantonare tutti i risparmi su conti correnti infruttiferi o depositi bancari a rendimento pressoché nullo non è a costo zero, come si potrebbe pensare.
Ci sono le spese più evidenti, ovvero quelle di apertura e gestione di conti e depositi che gli istituti di credito legittimamente chiedono per il servizio offerto. Secondo Banca d’Italia, una famiglia italiana spende, in media, 88,5 euro all’anno per la gestione del conto corrente4 (spesa in costante crescita negli ultimi anni); per quelli online, la spesa rilevata nel 2019 è stata di 21,4 euro, 5,9 euro in più rispetto all’anno precedente. La spesa, a cui va aggiunta quella per l’imposta di bollo, non è controbilanciata dai rendimenti, che sono nulli, visto che i tassi sono ancorati a quello di riferimento della BCE che, per effetto del massiccio intervento delle banche centrali nell’ultimo decennio, ha azzerato il rendimento.
Ci sono poi delle spese meno evidenti e quindi che possono sfuggire ad una valutazione sommaria del costo/beneficio nel mantenimento dei risparmi sotto forma di liquidità. L’inflazione, in particolare, può rappresentare una vera e propria tassa, in grado di erodere significativamente il valore dei patrimoni accumulati negli anni.
Considerando il tasso di inflazione stimato dalla BCE per il 2021 dell’1%, mettere in banca 20.000 euro oggi per lasciarli fermi su un conto corrente senza remunerazione (ma lo stesso vale per i conti deposito, che hanno tassi di interesse ormai irrisori) per 10 anni significa ritrovarsi con una cifra che ha un valore reale di poco più di 18.000 euro, perché non c’è un adeguamento alla crescita del costo del denaro. Se l’inflazione dovesse aumentare, come sembra probabile che accadrà nei prossimi mesi, il potere d’acquisto eroso sarebbe, ovviamente, maggiore.
Infine, oltre al valore che si perde in termini assoluti e di potere d’acquisto, bisogna calcolare anche le mancate opportunità di investimento che si potrebbero realizzare scegliendo di gestire i risparmi (in toto o in parte) nel medio e lungo periodo, diversificando gli asset. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera5, tra il 1900 e il 2018, gli azionari internazionali hanno offerto un rendimento nominale medio annuo del 4,2%, gli obbligazionari governativi internazionali dell’1,1% e il portafoglio bilanciato del 2,65%. Negli ultimi cinquant’anni (dal 1969), invece, i rendimenti risultano essere rispettivamente del 4%, del 3,7% e del 3,8%.
Liquidità o investimento: come scegliere?
Per le banche, l’enorme mole di risparmio privato lasciato su strumenti improduttivi sta diventando un problema, visto che gli istituti di credito devono pagare il costo dei tassi negativi per il deposito della liquidità presso le banche centrali, tanto che c’è chi6 ha iniziato ad applicare commissioni ai clienti con saldi esagerati, sulla scia di quanto già accade in altri Paesi Europei, o a chiudere il conto di chi supera la soglia dei 100mila euro accantonati su conti correnti.
Lo scenario su questo fronte è in evoluzione, anche perché, dopo Covid, la necessità di finanziare la ripresa e la transizione ecologica ha avviato ad una riflessione su come incentivare l’uso del risparmio privato per immetterlo nell’economia reale.
Cosa scegliere, dunque? Ogni situazione va, ovviamente, valutata per le sue peculiarità (disponibilità, profilo di rischio, aspettative). Tuttavia, ciò che conta è essere consapevoli di tutti i possibili rischi e benefici che possono derivare sia da una scelta d’investimento totale o parziale dei propri risparmi, sia dalla decisione di mantenerli sotto forma di liquidità in strumenti che non danno rendimento.
1. “Relazione annuale”, Banca d’Italia, 31 maggio 2021
2. “Rapporto mensile ABI”, ABI, giugno 2021
3. “Risparmio, sul conto corrente degli italiani 2.000 miliardi (fermi e improduttivi)”, Corriere della Sera, 11 marzo 2021
4. “Indagine del sul costo dei conti correnti”, Banca d’Italia, dicembre 2020
5. “Soldi fermi sul conto corrente? 10 mila euro dopo 5 anni diventano 8 mila: come evitarlo”, Corriere della Sera, 9 settembre 2019
6. “Foti: «Vi spiego perché Fineco ha preso di mira i grandi conti correnti»”, Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2021