COVID taglia l’aspettativa di vita degli italiani che, secondo il rapporto OCSE “Health at a Glance 2021”1 basato su dati Istat, si riduce di 1,2 anni, passando dagli 83,6 anni del 2019 agli 82,4 del 2020. Il trend è analogo in tutti i paesi Ocse, dove il calo medio è stato, però, inferiore rispetto a quello registrato in Italia, pari a circa 7 mesi.
Per l’Italia si tratta del secondo calo consecutivo dopo anni di costante crescita, visto che anche nel 2019, infatti, si era registrata una riduzione dell’aspettativa di vita2.
Il tema ha una sua rilevanza anche sul fronte pensionistico, visto che dal 2011, con la riforma Fornero delle pensioni, è stato introdotto un meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile proprio all’aspettativa di vita.
In base a questo sistema, negli ultimi 10 anni ci sono stati ben 4 aumenti di età in cui è possibile accedere alla pensione: nel 2013, 2015, 2017 e 2019. Ciascun adeguamento ha spostato in avanti di 3 mesi il requisito anagrafico, determinando un incremento complessivo di 1 anno rispetto a quanto previsto nel 2011.
Pensioni, perché l’aspettativa di vita incide sull’età pensionabile
La scelta fatta a monte di ancorare l’età pensionabile all’aspettativa di vita è legata ad una delle principali caratteristiche del sistema pensionistico italiano, ovvero quella di essere “a ripartizione”.
In sostanza, i contributi versati dai lavoratori attivi vengono utilizzati per pagare le pensioni di chi è uscito dal mondo del lavoro. Questo principio è basato su un patto intergenerazionale: chi lavora sa che i suoi contributi vanno a garantire le pensioni di chi è a riposo e che, allo stesso tempo, saranno le generazioni successive a versare quanto servirà per il suo vitalizio.
Tale sistema vale indipendentemente dal metodo di calcolo applicato, retributivo (basato sul reddito degli ultimi anni) o contributivo (basato sui contributi versati nel corso della propria carriera). I metodi di calcolo sono usati, infatti, solo per valutare quale deve essere l’importo degli assegni ed impattano sul tasso di sostituzione, ovvero il rapporto tra reddito da lavoro e pensione. I fondi per pagare i vitalizi, però, non sono quelli accantonati dal lavoratore stesso nel corso del tempo, bensì quelli che arrivano da chi è nel mondo del lavoro.
Si capisce così che il sistema pensionistico posa su un equilibrio molto delicato tra i contributi versati dagli occupati e gli assegni incassati dai pensionati. Se i primi non sono sufficienti per garantire i secondi, il gap viene coperto dalla fiscalità generale, che viene però evidentemente sottratta ad altre funzioni di natura sociale. In alternativa, laddove si dovessero evidenziare squilibri importanti, il Governo può sempre agire con riforme che rivedono al ribasso gli importi o allungano l’età pensionabile.
Per questo, per mantenere il più possibile in equilibrio il sistema, si è ritenuto necessario introdurre una serie di correttivi, tra cui, appunto, l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. L’obiettivo è gravare il meno possibile sulla fiscalità generale per coprire le pensioni, visto che i progressi di scienza e medicina negli ultimi decenni hanno fatto aumentare gli anni di vita attesi.
Perché non sarà ridotta l’età pensionabile nonostante il calo dell’aspettativa di vita
Se con l’aumentare dell’aspettativa di vita sono scattati gli aumenti dell’età pensionabile, ora che si è registrato il calo non ci si può aspettare altrettanto.
Con decreto n.268/2021 firmato il 27 ottobre scorso da Daniele Franco, ministro dell’Economia e delle Finanze, si è infatti stabilito che l’età pensionabile non cambierà. La norma prevede che “l’adeguamento dei requisiti per il pensionamento non può essere negativo” e, per questo motivo, vengono “congelati” per altri due anni gli attuali requisiti.
La ragione di questo azzeramento della variazione, nonostante il calo dell’aspettativa di vita, è legata all’equilibrio dei conti pubblici. Ridurre l’età di uscita dal mondo del lavoro, seppur di pochi mesi, ha costi molto importanti per la spesa pubblica. Basti pensare che l’adesione a Quota 100 di 341.128 lavoratori ha comportato una spesa di 11,6 miliardi di euro nel biennio 2019-20213, destinati a trascinarsi nel corso dei prossimi anni.
Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, dal punto di vista dei lavoratori è positivo che, quanto meno, non ci sia stato un ulteriore aumento del requisito anagrafico richiesto per mettersi a riposo.
La pensione di vecchiaia resta confermata a 67 anni sicuramente fino al 2023. Inoltre, se nel biennio successivo l’aspettativa di vita dovesse aumentare tanto da far scattare un aumento dell’età pensionabile di 3 mesi, quest’ultima andrebbe a “compensare” il mancato taglio di quest’anno, per cui fino al 2025 l’età per la pensione di vecchiaia dovrebbe restare congelata a 67 anni, rimandando al 2027 il successivo aumento.
Il condizionale, però, è sempre d’obbligo, perché il cantiere delle pensioni è sempre aperto e non è escluso che, se dovessero esserci variazioni significative, l’età della pensione possa essere incrementata prima di quella data, allungando i tempi di uscita dal mondo del lavoro.
1. “Health at a Glance 2021: OECD Indicators”, OECD
2. “Dati Ocse 2019/4”, Quotidiano Sanità, 11 luglio 2019
3. “I conti dell’Inps: quota 100 è costata 11,6 miliardi di euro. Ma Salvini sfida il governo sulle pensioni”, La Stampa, 13 settembre 2021