A che età si potrà andare in pensione? E con quale importo? Sono domande che prima o poi ogni lavoratore si pone. Tuttavia, ottenere una risposta non è semplice e le aspettative rischiano di essere molto distanti da quella che sarà poi la realtà.
Una ricerca recente condotta da Progetica1 e riportata dalla stampa nazionale, ad esempio, evidenzia che gli italiani sognano di andare in pensione molto prima di quel che la realtà consenta loro e che hanno aspettative sulla consistenza dello stipendio un po’ troppo elevate.
Sulla capacità di prevedere l’età pensionabile (il 32% dovrà lavorare fino a 5 anni in più delle proprie aspettative) pesa la complessità del sistema pensionistico, in cui, alle regole “standard” si sovrappongono deroghe e forme di flessibilità che, di fatto, danno vita ad una pluralità di possibilità di uscita dal mondo lavorativo.
La difficoltà di stabilire con quanto si andrà in pensione è legata, invece, alla natura stessa del metodo di calcolo contributivo, che, essendo strettamente legato all’andamento dell’attività lavorativa, è influenzato da una serie di variabili difficilmente controllabili e soggette alle mutazioni dello scenario macro-economico.
Come si calcola la pensione: dal metodo retributivo al metodo contributivo
La riforma Dini del 1995, portata a conclusione nel 2011 dalla riforma Fornero delle pensioni, ha modificato profondamente il sistema previdenziale rispetto al passato.
Fino ad allora, infatti, le pensioni venivano calcolate esclusivamente con il metodo retributivo, che, introdotto dalla legge 153 del 30 aprile 1969, si basa sul presupposto che il pensionato debba mantenere il tenore di vita che si è costruito nel corso della sua carriera. Con questo metodo, il vitalizio è di fatto commisurato alle retribuzioni percepite negli ultimi anni di attività e vale l’80% della retribuzione degli ultimi 5 o 10 anni lavorativi.
La sostenibilità di questo sistema si basa su una sorta di patto inter-generazionale, con cui i lavoratori attivi, con i contributi versati, pagano le pensioni di chi è a riposo, contando sul fatto che le loro pensioni saranno coperte dai futuri lavoratori.
Tuttavia, il costante invecchiamento della popolazione italiana ed il calo demografico hanno messo in crisi questo equilibrio tra lavoratori e pensionati, che rischiava di non essere più sostenibile.
Da qui, nel 1995, è iniziata la riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare (riforma Dini), che ha introdotto il sistema di calcolo contributivo, disponendone la totale applicazione nei confronti di tutti i lavoratori a decorrere dal 1° gennaio 1996.
Il calcolo contributivo si basa sulla diretta correlazione tra i contributi versati e la pensione. In sostanza, il vitalizio dipende dai contributi accantonati (montante contributivo) che vengono convertiti in rendita attraverso coefficienti di trasformazione calcolati in base all’età di pensionamento e della conseguente attesa di vita. Rispetto al metodo retributivo, in questo caso ciascuno paga da sé la propria pensione, svincolando la sostenibilità della spesa previdenziale dalle dinamiche demografiche.
Per il lavoratore, il metodo contributivo è, però, tendenzialmente più sfavorevole. Se, infatti, con il metodo retributivo si era certi che il vitalizio sarebbe stato pari all’80% del reddito, con il metodo contributivo l’importo dipende da tutti i contributi effettivamente versati nel corso della carriera lavorativa. Ciò vuol dire che periodi di disoccupazione, sospensioni dell’attività lavorativa, ma anche redditi bassi si riflettono nella pensione che sarà percepita. La stima è che, in generale, col contributivo il vitalizio sia mediamente il 55-60% del reddito.
Pensioni, perché i Millennials sono più penalizzati
Ad oggi, il metodo contributivo non è mai stato applicato tout-court. Visto il “costo politico” di attuare una misura che, di fatto, avrebbe ridotto di molto le pensioni rispetto alle aspettative, ancora oggi la pensione viene calcolata per “quote”.
A chi ha almeno 18 anni di contributi alla data dell’1 gennaio 1996, si applica il sistema retributivo sulla parte di anzianità acquisita al 31 dicembre 2011, mentre il resto è calcolato con il contributivo.
Per chi ha meno di 18 anni di contributo all’1 gennaio 1996, si applica il metodo retributivo per la quota di anzianità maturata al 1995, contributivo per i successivi.
Solo per chi ha iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996, la pensione è calcolata interamente con il criterio contributivo (a meno che non appartenga esclusivamente a casse private che applicano ancora il retributivo).
Si tratta, sostanzialmente, dei Millennials, che andranno in pensione tra il 2040 ed il 2050, a cui – al netto di nuove revisioni – si applicherà interamente il metodo di calcolo contributivo. L’andamento del mercato del lavoro, non brillante in questi ultimi anni, ha già fatto prospettare pensioni non particolarmente rosee per i lavoratori a cui sarà applicato interamente il metodo contributivo2. Qualche anno fa, presentando una simulazione sulla base di un campione di 5.000 lavoratori nati nel 1980, l’allora presidente dell’Inps Tito Boeri3 aveva evidenziato che un 35enne avrebbe preso una pensione del 25% inferiore rispetto ai nati del 1945 pur lavorando almeno fino a 70 anni. L’emergenza Covid non ha migliorato il contesto: ogni peggioramento sul fronte occupazionale si riflette, infatti, sulle pensioni future.
In un contesto di profonda incertezza, è fondamentale essere informati sulle proprie prospettive, per avere l’opportunità di intervenire colmando il gap tra pensione e stipendio con forme di previdenza integrativa.
1. Raffaele Ricciardi, “Pensioni, per gli italiani forte rischio delusione: quasi otto su dieci vogliono smettere prima dell’età per ritirarsi. E si aspettano assegni troppo pesanti”, la Repubblica, 3 maggio 2021
2. “Pensioni, Millennials: rischio di 5,7 mln di nuovi poveri entro il 2050”, Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2018
3. “Pensioni, che beffa per i 35enni: andranno in pensione a 75 anni
e con un assegno più basso del 25%”, Corriere della Sera, 1 dicembre 2015