Negli ultimi anni, l’attenzione alla sostenibilità alimentata in tutto il mondo da movimenti giovanili (il più noto è quello legato a Greta Thunberg) e da istituzioni internazionali (Nazioni Unite, Unione Europea) ha coinvolto anche il mondo finanziario, che si è trovato ad interfacciarsi con investitori e risparmiatori sempre più sensibili ai temi dello sviluppo sostenibile ed interessati ad impiegare il capitale privato per contribuire a raggiungere gli obiettivi definiti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e dall’Accordo di Parigi sul clima.
Questo ha fatto sì che anche una sigla come ESG (Environmental, Social, Governance), che definisce una strategia di investimento, sia entrata a far parte del linguaggio comune e dei media, diventando di fatto sinonimo di sostenibilità. Ma come si è arrivati all’inserimento dei temi ESG nell’ambito finanziario? Cosa significa esattamente questo acronimo? E come si investe, concretamente, in sostenibilità?
Dalla finanza etica ai fondi ESG: una storia in evoluzione
Non è da oggi che la finanza si interessa delle possibili esternalità positive che può contribuire a creare orientando gli investimenti.
Nel mondo occidentale, le prime tracce di questo approccio risalgono almeno alla seconda metà del XVIII secolo1, per lo più all’interno di ambienti religiosi. Nella metà del 1700, ad esempio, i quaccheri decisero di proibire ai propri membri qualsiasi forma di partecipazione economica che coinvolgesse la tratta degli schiavi o la guerra. Allo stesso modo il reverendo John Wesley, fondatore del metodismo, espresse il suo dissenso all’uso del denaro in attività che danneggiassero la salute del corpo o della mente2. Nasce così il concetto di finanza etica, ovvero della finanza che integra l’analisi prettamente economica con motivazioni etiche e morali nella definizione di dove e come allocare le risorse.
Questo approccio trova la sua concreta realizzazione nel Socially Responsible Investing, strategia di investimento che coniuga la dimensione economico-finanziaria con quella socio-ambientale per ottenere esternalità positive a vantaggio della comunità.
Il primo fondo SRI risale al 1928, quando negli Stati Uniti alcune organizzazioni religiose costituirono il “Pioneer Fund”, che prevedeva di non investire in aziende produttrici di tabacco, alcol e gioco d’azzardo. Dagli ambienti religiosi, la tendenza a coniugare finanza con finalità etiche si è esteso nel tempo a temi politici e sociali. Emblematico quanto accadde, ad esempio, durante la Guerra del Vietnam, quando in molte università liberali statunitensi si formò un’alleanza tra progressisti e studenti affinché le dotazioni finanziarie delle università e i fondi pensione del personale non venissero investiti in aziende produttrici di armamenti.
Anche attorno alla lotta all’Apartheid si creò un movimento, sostenuto dai princìpi di Leon Sullivan, sacerdote battista, promotore di diritti civili, nonché membro del Cda della General Motors. Su questa scia, nel 1980 la Boston Bank istituì un indice finanziario includendo solo aziende che non facevano affari con il Sudafrica.
Di fatto, nel corso della storia, i grandi temi etici, politici, sociali ed il mondo finanziario si sono sempre intrecciati. Non poteva non accadere, dunque, anche con il grande filone della sostenibilità, che, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, si è imposto tra le priorità delle agende della politica internazionale, cambiando di fatto il paradigma stesso delle modalità di sviluppo della società. Dirompente, in particolare, fu la pubblicazione del rapporto “The Limits to Growth” del Massachusetts Institute of Technology nel 1972, con cui si iniziò a mettere in guardia dal rischio di utilizzare le risorse naturali disponibili senza tener conto delle generazioni future.
La presa di coscienza dell’opinione pubblica ha portato a quella che oggi chiamiamo finanza sostenibile, che rientra nella cornice della finanza etica, ma con un focus, appunto, sulla sostenibilità.
Per passare dalla teoria alla pratica dell’investimento sostenibile, tuttavia, è stato necessario individuare dei criteri comuni, che consentissero di individuare titoli ed imprese su cui investire, superando l’approccio dell’esclusione su base puramente etica.
Si arriva così al 2005, quando l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, invitò i più grandi investitori del mondo ad elaborare una serie di principi che spiegassero come investire in modo sostenibile e responsabile i propri capitali. Nel 2006 furono presentati al mondo gli UN PRI, United nations principles for responsible investments3, che lanciarono i temi ESG come parametro su cui misurare l’analisi degli investimenti ed i processi decisionali.
Cosa c’è da sapere sugli investimenti ESG
L’acronimo ESG definisce, di fatto, i parametri entro cui devono muoversi la strategie di ricerca e selezione dei destinatari degli investimenti che possono essere definiti sostenibili.
Il primo elemento della triade è l’ambiente, Environmental, ed implica la necessità di valutare come il soggetto economico in cui si vogliono investire i propri capitali si comporta nei confronti dell’ambiente. Ad esempio, se è strutturalmente dipendente dai combustibili fossili, se ha un’impronta idrica elevata, se si è reso complice della deforestazione e se smaltisce correttamente i rifiuti.
La seconda dimensione è quella Social, che prende in esame l’impatto sociale di un’azienda o attività: le condizioni di lavoro dei dipendenti, eventuali conflitti con la comunità locale, l’attenzione alla sicurezza sul luogo di lavoro e alla salute, la tutela delle diversità e i corretti rapporti interpersonali tra i dipendenti.
Il termine Governance, infine, implica attenzione alla gestione aziendale ispirata a buone pratiche e a principi etici. I temi sotto esame riguardano le logiche legate alla retribuzione dei dirigenti, il rispetto dei diritti degli azionisti, la trasparenza delle decisioni e delle scelte aziendali, il rispetto delle minoranze.
Ma come, nel concreto, si attua l’investimento sostenibile? Esistono diverse “modalità d’azione”. Si possono, ad esempio, escludere titoli legati ad uno specifico settore produttivo o di realtà incompatibili con i criteri ESG o con gli standard normativi internazionali, oppure selezionare i titoli “Best in class”, individuando le aziende con i migliori punteggi in termini ESG all’interno del loro comparto economico. L’azionariato attivo, invece, consiste nel coinvolgimento degli azionisti nelle aziende, con l’obiettivo di massimizzare i rendimenti ponderati per il rischio, migliorare la condotta del business, sottoporre all’attenzione questioni etiche o morali e contribuire allo sviluppo sostenibile.
Un’altra strategia può essere quella di investire direttamente in temi sostenibili, attraverso l’Impact Investing, ovvero investendo a sostegno di attività che generino un impatto sociale e ambientale positivo con un ritorno finanziario sul capitale, fornendo risorse economiche per affrontare le sfide più urgenti ad esempio in settori come l’agricoltura sostenibile, le energie rinnovabili, l’istruzione, l’alloggio e l’assistenza sanitaria.
Il nodo del lessico: cosa è davvero sostenibile?
Se nel corso degli ultimi anni sono state individuate diverse modalità di investire secondo i criteri ESG, resta tuttavia un nodo ancora da sciogliere, ovvero quello della definizione di un lessico comune a tutti gli investitori per definire attività ed aziende sostenibili. Ad esempio, se un’azienda che produce tecnologie per l’agricoltura sostenibile non usa, nel suo processo produttivo, fonti di energia rinnovabili, la si può considerare sostenibile o meno? In assenza di una definizione univoca, i gestori finanziari ed i fondi di investimento hanno fino ad ora deciso in autonomia, con la conseguenza di avere disparità di valutazioni su una stessa azienda o attività. Visto l’incremento dell’offerta di fondi ESG e della domanda, l’assenza di un vocabolario comune, tuttavia, rischia di creare confusione.
Per questo, l’Europa ha deciso di prendere in mano la questione ed ha avviato un lungo lavoro per definire un vocabolario comune di sostenibilità sulla base dei quali ciascun operatore finanziario ed investitore (istituzionale o privato) possano applicare criteri ESG condivisi. Un lavoro che si è già concretizzato con le prime rendicontazioni finanziarie sostenibili e che fine anno 2021 porterà alla definizione di una Tassonomia europea, creando una cornice di chiarezza e trasparenza che potrà dare ulteriore impulso agli investimenti ESG, continuando ad alimentare il rapporto tra finanza e società.
1. “L’Unione Europea e la finanza sostenibile”, ItaSIF, novembre 2019
2. Valentina Neri, “La storia degli investimenti sostenibili e responsabili”, LifeGate, 6 luglio 2016
3. “Principles for Responsible Investment (PRI)”, BorsaItaliana.it