L’introduzione del metodo di calcolo contributivo delle pensioni, con la riforma Dini del 1995, ha complicato la capacità di fare delle previsioni sull’importo dell’assegno previdenziale rispetto al precedente metodo retributivo.
Se, infatti, con quest’ultimo il vitalizio è pari all’80% dello stipendio degli ultimi 10 anni lavorativi, è molto più difficile stimare l’importo della pensione (intera o una quota) calcolata con il metodo contributivo senza prendere carta e penna, perché il risultato dipende da una serie di elementi.
Ruolo chiave nel calcolo della pensione è il montante contributivo, ovvero la somma di tutti i contributi versati durante l’attività lavorativa. Tutti i lavoratori, prima o poi, si trovano a dover fare i conti con questo meccanismo. Chi ha iniziato a lavorare dopo l’1 gennaio 1996, infatti, avrà la pensione interamente calcolata sulla base del montante contributivo, ma anche chi già, a quella data, lavorava si vedrà calcolata una quota della pensione con questo metodo.
Montante contributivo: cos’è e come si compone
Il montante contributivo è sostanzialmente il capitale che il lavoratore ha accumulato negli anni di attività, attraverso il versamento dei contributi lavorativi, rivalutato in base all’andamento dell’economia del Paese.
Per calcolarlo, bisogna innanzitutto individuare la base imponibile annua, ovvero la retribuzione annua per i dipendenti o il reddito annuo per gli autonomi, corrispondente ai periodi di contribuzione (obbligatoria, volontaria, figurativa, da riscatto, da ricongiunzione) fatti valere dal lavoratore ogni anno.
A questo va applicata l’aliquota del 33% per i periodi di contribuzione da lavoratore dipendente o del 23% per i periodi di contribuzione da lavoratore autonomo, in modo da determinare la quota di contributi versati per la previdenza.
Per fare un esempio, immaginiamo il caso di un dipendente che abbia iniziato a lavorare nel 1996 e che decida di andare in pensione di vecchiaia nel 2020 a 67 anni di età. Se la base imponibile annua è fissa a 20.000 euro, per ogni annualità avrà accantonato 6.600 euro di contributi.
Per ottenere il montante contributivo, si devono rivalutare i contributi annuali sulla base del tasso annuo di capitalizzazione, risultante dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo nominale (PIL) appositamente calcolata dall’ISTAT. Questa operazione è necessaria per mantenere inalterato nel tempo il potere d’acquisto, evitando che quest’ultimo sia eroso dall’incremento dell’inflazione, che ridurrebbe il valore reale dei contributi accantonati. Ciò vuol dire che se l’economia del Paese va bene, anche i contributi del lavoratore ne trarranno giovamento. Al contrario, se dovesse scattare la spirale deflattiva, i contributi (e quindi la pensione) ne sarebbero penalizzati.
La somma dei contributi annui rivalutati costituisce il montante contributivo. Immaginiamo, per semplicità di calcolo, che la crescita del PIL sia pari a zero, per cui la rivalutazione sia nulla. Dopo 24 anni di lavoro, il suo montante contributivo sarà di 158.400 euro.
Coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione contributiva
II metodo di calcolo contributivo si basa sul principio che la pensione deve essere coperta dai contributi versati dal lavoratore.
Il montante, quindi, deve essere “spalmato” sugli anni attesi di quiescenza, in modo da garantire la copertura reddituale per il resto della vita.
Alla somma dei contributi rivalutati va quindi applicato il coefficiente di trasformazione, valore che “converte” il montante nella pensione annua. La tabella dei coefficienti, che variano a seconda dell’età in cui si lascia il mondo del lavoro, viene pubblicata dall’Inps1 ed aggiornata periodicamente in relazione all’aspettativa di vita. In generale, quanto più tardi si va in pensione, tanto più vantaggioso è il coefficiente di trasformazione perché minore sarà la durata della vita (potenziale) del beneficiario.
Riprendiamo l’esempio del nostro lavoratore. Se, come abbiamo detto, va in pensione a 67 anni, il coefficiente da applicare al montante di 158.400 euro è pari a 5,575%, per cui la sua pensione annua sarà di 8.830 euro, pari a 753,90 euro al mese. Se dovesse, invece, ritardare l’uscita dal mondo del lavoro fino ai 70 anni, la cifra cambierebbe per due ragioni. Innanzitutto, al montante contributivo dovremmo aggiungere 3 ulteriori anni di contributi, che porterebbero il “tesoretto” accantonato a 178.200. Il coefficiente sarebbe, inoltre, più generoso (6,215%), e porterebbe ad un vitalizio annuo di 11.073 euro, pari a 922 euro al mese.
Questo quadro, pur semplificato, spiega perché, ad esempio, una misura di flessibilità come Quota 100 non abbia avuto il successo atteso: pur non prevedendo formalmente penalizzazioni per i beneficiari, di fatto anticipare l’età della pensione riduce sempre l’importo finale della pensione.
Inoltre, l’esempio evidenzia come il calcolo con metodo contributivo determini una riduzione importante del reddito nel momento in cui si passa dalla condizione di lavoratore a quello di pensionato. Nel nostro caso, il reddito mensile da lavoro era di 1666 euro, quello da pensione, nella migliore delle ipotesi, arriva a 922 euro, pari al 55% dello stipendio. Se il nostro lavoratore fosse andato in pensione prima del 1996, quando era in vigore il metodo di calcolo retributivo, a parità di condizioni avrebbe percepito un vitalizio mensile pari a 1332 euro, pari all’80% dello stipendio.
La nuova modalità di calcolo può generare, dunque, un gap importante, che determina una brusca riduzione del tenore di vita: non a caso, la stessa riforma Dini già nel 1995 prevedeva la necessità di incentivare la previdenza integrativa.
1. “Coefficiente di trasformazione”, INPS, 23 giugno 2021