Con il cambio del metodo di calcolo della pensione da retributivo, in base al quale la pensione è una percentuale dello stipendio degli ultimi anni, a contributivo, legato ai contributi versati, è diventato molto più complicato avere un’idea di quanto si percepirà una volta usciti dal mondo del lavoro.
Col metodo retributivo, infatti, l’importo del vitalizio era “ancorato” allo stipendio degli ultimi 5/10 anni. Il metodo contributivo non consente, invece, di avere cifre certe fino alla fine della carriera lavorativa, perché il valore della pensione dipende dalla sommatoria di tutti i contributi accumulati dal primo all’ultimo anno di lavoro. Ne deriva che carriere continue, caratterizzate da redditi elevati e costanti, daranno origine a pensioni brillanti. Al contrario, carriere caratterizzate da forte discontinuità con andamento altalenante di redditi e, di conseguenza, di contributi versati, sfoceranno in pensioni che saranno lo specchio dell’attività lavorativa.
Per capire come sarà il proprio futuro previdenziale non è sufficiente, però, conoscere solo l’importo della pensione, ma è altrettanto importante capire se e come cambia il tenore di vita garantito dal reddito da lavoro.
Per questo è molto utile valutare il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto in percentuale tra l’importo del primo assegno pensionistico e l’ultimo stipendio o reddito percepito prima dell’uscita dal mondo del lavoro.
In sostanza, è un indice della copertura pensionistica garantita ai lavoratori dall’ordinamento previdenziale obbligatorio determinato dalla carriera lavorativa.
In questo caso, ci sono delle indicazioni attendibili che arrivano direttamente dalla Ragioneria dello Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che nel suo Rapporto “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”1, ha stimato il tasso di sostituzione lordo della previdenza obbligatoria delineando diversi scenari.
Cos’è il tasso di sostituzione e come cambia da retributivo a contributivo
Fino a che a tutti i lavoratori si applicava il sistema retributivo per il calcolo della pensione, il tasso di sostituzione era tendenzialmente certo, perché il vitalizio era (ed è, per chi ancora si vede applicato parzialmente questo metodo) l’80% degli stipendi degli ultimi 10 anni.
Ciò significava garantire un tenore di vita pressoché invariato anche dopo la pensione, aspetto altamente vantaggioso per il pensionato, meno per la spesa previdenziale.
L’introduzione del metodo contributivo è scaturita proprio dalla necessità di rendere sostenibile la spesa pubblica destinata alle pensioni. Il valore dell’assegno pensionistico è stato così ancorato ad un mix di tre fattori: l’entità dei contributi annualmente versati; l’andamento del prodotto interno lordo e l’età di pensionamento.
Queste condizioni rendono anche estremamente variabile il tasso di sostituzione col metodo contributivo: l’unica certezza è che è nettamente inferiore a quello garantito con il metodo retributivo.
La Ragioneria di Stato ha elaborato gli scenari dei tassi di sostituzione nei decenni dal 2010 al 2070 in base alle regole per l’età pensionabile, alla tipologia di lavoratore (dipendente/autonomo) e al genere (lavoratori/lavoratrici)2.
Dall’analisi emerge, ad esempio, che un dipendente andato in pensione di vecchiaia nel 2010 (65 anni e 4 mesi di età o 35 anni e 4 mesi di contributi) ha ricevuto il 68,4% del reddito da lavoro, mentre nel 2020, con requisiti pensionistici più elevati (67 anni di età o 37 di contributi) il tasso di sostituzione arriva al 70%. Un lavoratore autonomo, a parità di condizioni, ha invece avuto il 67,6% del reddito andando in pensione nel 2010, il 53,1% nel 2020.
Nei decenni successivi, fino al 2050, il tasso di sostituzione peggiora sia per i lavoratori dipendenti che per gli autonomi: i primi arrivano al 65,6% nel 2030, 65,6% nel 2040, al 68,5% nel 2050; i secondi raggiungono un tasso di sostituzione del 44,4% nel 2030, 45,4% nel 2040 e 49,3% nel 2050.
Per i dipendenti che andranno in pensione nel 2060 e 2070 andrà meglio, visto che il tasso supererà quota 70%; per gli autonomi il trend sarà in leggero aumento, ma non si supererà il 53%.
Tasso di sostituzione: va peggio a lavoratrici, autonomi e giovani
In base agli scenari della Ragioneria di Stato, i dipendenti hanno tassi di sostituzione maggiori in virtù della maggiore continuità di carriera, che garantisce retribuzioni stabili.
Gli autonomi sono, invece, più penalizzati perché i redditi non godono della stessa certezza ma sono soggetti a variazioni legate all’andamento dell’economia, che impattano anche sul reddito da lavoro e, di conseguenza, sui contributi.
In entrambi i casi, sono comunque favoriti i lavoratori che hanno iniziato a lavorare prima del 1996, perché nel calcolo della loro pensione si applica il metodo misto, con una quota di retributivo che “alza” la media della quota calcolata col metodo contributivo.
Lo si vede bene guardando il tasso di sostituzione di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996, che si vedrà applicato il metodo contributivo puro: in questo caso si nota come i tassi di sostituzione siano molto più bassi, per dipendenti ed autonomi, rispetto alle generazioni precedenti.
La tabella evidenzia bene anche come il tasso di sostituzione sia più elevato man mano che aumenta l’età della pensione. Ciò accade perché più tardi si esce dal mondo del lavoro, più contributi vengono versati e, di conseguenza, maggiore sarà il vitalizio e, tendenzialmente, il rapporto con l’ultimo reddito da lavoro percepito.
Si nota, infine, una profonda divergenza tra tasso di sostituzione di lavoratori e lavoratrici, con queste ultime più penalizzate perché, in generale, devono scontare redditi più bassi, legati ad esempio ad un maggiore uso di contratti part-time, periodi di fermo legati a maternità o cura dei familiari. Tutti aspetti che incidono sul reddito percepito e, di conseguenza, anche sui contributi, che sono una percentuale dello stipendio: Nel 2020, ad esempio, la forbice tra donne e uomini che lavorano da autonomi è addirittura di 18,6 punti percentuali.
Ma perché è importante conoscere il tasso di sostituzione? Rispetto al passato, c’è sempre maggiore consapevolezza del gap tra reddito e pensione sta aumentando, ma ancora pochi corrono ai ripari.
Sapere il rapporto tra pensione e reddito da lavoro permette di comprendere se e in che misura il tenore di vita di cui si gode durante la vita attiva potrà essere mantenuto dopo il pensionamento. Nel caso il tasso di sostituzione sia ritenuto insufficiente o insoddisfacente, si può infatti cercare di intervenire attraverso soluzioni orientate a fornire un capitale o una rendita in grado di coprire il gap, in modo da integrare la pensione pubblica e mantenere il tenore desiderato.
1. “Spesa pensionistica – Anno 2021”, Ragioneria Generale dello Stato
2. “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio sanitario”, tabella 6.1 Ragioneria Generale dello Stato